martedì 7 dicembre 2010

Razzismi

In questi giorni sono due i fatti di cronaca che stanno monopolizzando l’attenzione e le coscienze degli italiani. Il primo riguarda il rapimento, o meglio, la scomparsa (le indagini non hanno ancora chiarito bene ciò che è accaduto) di una ragazzina di tredici anni, e la morte, in un incidente stradale, di sette ciclisti nei pressi di Lamezia Terme (e non Lametia come scritto da studio aperto). Questi due fatti di cronaca, all’apparenza agli antipodi, hanno come minimo comun denominatore il razzismo; il tentativo di giustificare il razzismo da un lato, e l’istituzionalizzazione del razzismo dall’altro. Questo avviena soprattutto da parte dei giornali. I familiari delle vittime e le comunità in cui vivono sono chiuse nel loro dolore, che vivono in maniera privata e dignitosa, oltre che coraggiosa, senza nessuna spettacolarizzazione. E questo è un dato importante, dopo la spettacolarizzazione di altri fatti di cronaca recenti.
Un ragazzo tunisino di 22 anni è stato arrestato con l’accusa di avere rapito e ucciso la bambina grazie ad un’intercettazione, che si è poi scoperto essere stata tradotta male. Il ragazzo è stato in seguito scarcerato, ma rimane tuttora indagato, anche se la sua posizione sembra allegerirsi ora dopo ora. Ciò non ha impedito alla vicenda di trasformarsi in un pretesto per l’ennesima criminalizzazione dell’immigrazione, l’ennesima occasione per generalizzare e prendersela con gli immigrati, che siano onesti o disonesti, che siano clandestini o regolari, che siano brave persone o delinquenti. Tutto questo nel nord leghista, lo stesso nord che paga questi immigrati in nero per abbassare il costo della manodopera ed essere più competitivo sul mercato, salvo poi scaricare questa gente quando si è in pubblico.
A Lamezia il discorso è diverso, ma le similitudini sono molteplici. Un’idiota patentato, la patente ce l’aveva, gliel’avevano restituita dopo 6 mesi dal ritiro e dopo aver seguito tutto l’iter regolarmente, ha falciato un gruppetto di ciclisti dopo aver azzardato un sorpasso. Un idiota appunto, uno. Che senso ha prendersela con l’intera comunità marocchina? Non è stata la comunità marocchina a restituirgli la patente, non è stata la comunità marocchia a progettare e costruire quella statale maledettamente pericolosa, frutto di chissà quale speculazione. È vero che in questo caso non c’è stato nessuna dichiarazione pubblica contro la comunità marocchina, ma è vero anche che la polizia ne ha sconsigliato la presenza ai funerali.
Nel primo caso, quello che è accaduto al nord, è stato accusata una persona di avere commesso un’efferato delitto e si è puntato il dito contro il problema dellìimmigrazione ancor prima che ci fossero prove concrete, anzi, ancor prima di trovare il cadavere, anzi ancor prima di capire se la ragazzina sia viva o morta. Si cerca di istituzionalizzare il razzismo, di renderlo legale. In parte questa istituzionalizzazione è già avvenuta, come nel caso della legge Bossi Fini e come nel caso dell’introduzione del reato di immigrazione clandestina.
Nel caso di Lamezia l’incidente è stato preso come pretesto per lanciare anatemi razzisti. Ovviamente questa operazione è stata compiuta da parte dei giornali, o meglio da parte dei giornalacci (soprattutto quotidiani locali o giornali di basso livello), con la speranza di vendere mezza copia in più.
Siamo razzisti, l’Italia è un paese di razzisti. Vogliamo pensare che i problemi vengano  dall’esterno, a rovinare il quieto vivere della brava gente che siamo. Lo facciamo per sentirci sicuri, pensando che, se non ci fosse immigrazione, non ci sarebbe delinquenza. Quando c’è un delitto speriamo che il carnefice sia un immigrato e non un italiano, così da poterci incazzare con gli altri. In fondo siamo brave persone. Le stesse brave persone che hanno inventato mafia, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, la banda della magliana, l’anonima seqestri, le stragi di stato, le brigate rosse, il fascismo, le leggi razziali, la violenza negli stadi (che abbiamo importato dall’estero ma abbiamo saputo far nostra, usandola anche come pretesto per favorire le pay tv, ma questo è un altro discorso). Traffichiamo droga e prostitute, contrabbandiamo sigarette e organi umani. Ammazziamo i nostri familiari, i nostri vicini di casa, le nostre mogli, i nostri figli. Ma sappiamo prendercela con gli altri, quando ce n’è bisogno. 

martedì 16 novembre 2010

Il vecchio Joe - Parte seconda

Joe si innamorò una volta, 50 anni prima. Era appena finita la 2° guerra mondiale e Joe, appena tornato dall’europa, conobbe Beatsy al Blue Boot, durante la lettura di alcune poesie di J. Abraham. Vedendola entrare nel locale rimase di sasso. Lui, come al solito, era seduto al bancone e stava chicchierando con il quinto bicchiere di Bourbon della serata. La conversazione quella sera era molto aulica, si parlava della poesie di Melissa Manson, ma la visione di Beatsy lo riuscì a distogliere dalla conversazione e il bourbon, per risentimento, scappo via dal bicchiere e andò ad annegarsi nella gola dell’allora giovane Joe. Quando lei scese le scale, lui le si avvicinò e le chiese di ballare. Lei fu sorpresa non tanto dall’irriverenza dell’invito ma dall’assenza di musica. Quando Lou il folle recitava J. Abraham pretendeva assoluto silenzio. Lei rimase di sasso, non sapeva cosa rispondere e si limitò a dirgli “Tu sei matto”, mentre si voltava dall’altro lato. Lui la prese per mano, la avvicinò a se, le mise le mano ai fianchi e incomincio a sussurlarle il motivetto di blue moon nell’orecchio, tra le proteste di Lou e del giovane incravattato accompagnatore della bella Beatsy. A interrompere l’idillio fu il “PUNCH!” che emise il pugno che quest’ultimo depositò sulla faccia di Joe che, come forma di personale protesta contro la violenza di tale gesto, cadde a terra, sorretto da Morfeo, che gli tenne compagnia finché non tornò in se. Quando ciò accadde, lei era già andata via da 2 ore. Lui non se ne curò più di tanto, sapeva che sarebbe tornata e che questa volta non ci sarebbe stato nessun pugile ad accompagnarla.  Ad essersene andato fu anche Lou il Folle, indignato per la totale mancanza di rispetto per la sua arte.

domenica 14 novembre 2010

Il vecchio Joe - Parte prima

Il vecchio Joe arrivò al bar alle 6 in punto, come ogni giorno. A quell’ora molte persone si riuniscono attorno al tavolo per godere la serenità e la sicurezza della dolce atmosfera familiare, una serenità fatta da piatti caldi adagiati su tavole imbandite con ogni ben di Dio.  Per  Joe é sempre stato diverso. Joe era un solitario, uno di quei personaggi che fa parte dell’arredamento di quello squallido covo per  eremiti chiamato Blue Boot. Una volta il Blue Boot era un locale molto noto a tutti i ragazzi della zona. Qui si faceva musica dal vivo, si recitavano poesia, si improvvisava teatro. Quei giovani andarono via 20 anni prima, in fuga dalla disoccupazione che aveva mangiato quella città.  Di quello straordinario periodo rimasero solo le locandine delle serate e le foto appese dietro al bancone. Il proprietario del Blue Boot si chiamava Paul, ma tutti lo chiamavano Giant Paul a causa della sua statura. Giant Paul unì, con quel locale, la sua passione per l’arte alla sua passione per l’alcool. Diceva che erano gli unici due modi che sono rimasti all’uomo per viaggiare, in quanto ti portavano ad esplorare posti mai esplorati in quanto non terreni, ma appartenenti a un mondo magico che é solo degli artisti e degli ubriaconi. Oggi, dal bancone del Blue Boot, non riesce neanche a immaginare la sua morte, visto che l’alcool senza poesia non era in grando di viaggiare abbastanza lontano. Quando tutti andarono via lui decise di rimanere. Come ogni capitano che si rispetti non abbandonò la sua nave. Tra i pochi avventori rimasti c’era, appunto, il vecchio Joe, un burbero ex hippy che, più che nell’amore, credeva nella solitudine.

sabato 6 novembre 2010

Skorza

Ripensare ai  19 anni trascorsi mella mia terra significa fare un tuffo nella memoria, un viaggio nel tempo, neanche così lungo a dire il vero. Ritornare ai tempi della scuola, quel rudere con i muri completamente ricoperti di scritte, le vetrate giganti nelle aule che davano sul cortile, i graffiti nello scantinato del bar, nostro regno, baluardo invalicabile, almeno per 15 minuti al giorno, quelli della ricreazione. Il caffè di zio fausto, i panini wurstel e patate, le ore di educazione fisica passate nel cortile con compagni di classe e di scuola aggiuntivi.
Ricordo la fatidica domanda prima dell’inizio della prima ora, la lotta per convincere i compagni a non entrare, o, in alcuni casi, a convincere i compagni a lasciarti entrare, le entrate alla seconda ora, i cazziatoni di Versace. I filoni, il caffè al bar giulia, le mattinate passate alla villetta di via giulia o a casa nostra a torre alta. Il sabato sera, la pizza doppia al tappo, la peroni da 75 alla stella (ultimo baluardo), i “fammi male” al mazzini, le tavolate al moro, le risse alla santa teresa. Le bottiglie di vodka panna e fragola al supermercato, il fumo all’ufficio, la nebbia di fumo al piper, gli arancini dello Yankee prima di salire all’irish. Le bottiglie di prosecco allo speed, le bottiglie di martini nella Golf, le cene a mendicino e dal cugino, le passegiate in via alimena. Il discutere amabilmente con lord inglesi vestiti col giubino ‘i l’essenza, riguardo presunti sgambetti, occhiate di traverso a loro, alle loro donne o alla loro pizzette. 

martedì 26 ottobre 2010

Saving Grace

Voglio parlare di una parola magica, una parola che, se pronunciata ad alta voce, può trasformare tutto, come per magia, ma può anche distruggerti la vita, ma si sa, la vita è piena di effetti collaterali la parolina magica non fa eccezione.  Molti non credono al suo potere ma, per fortuna, quelli che ci credono sono la maggioranza. La parola in questione è Saving, inteso come risparmio e non come “che salva, che redime”, anche se la questa seconda accezione non è assolutamente estranea al concetto in questione, in quanto redento e salvo è colui che porta a casa un Saving! Dio benedica il Saving e benedica la la patria, che, con il Saving, tornerà grande e prospera, risollevandosi dalle polveri socialiste che per decenni di buonismo cristiano hanno raccolto le gloriose ossa rotte del romanico stivale. A te, oh Saving, sacrificheremo le nostre vittime, per mostrarti la nostra gratitudine. E non ci accontenteremo di agnelli, o signore supremo. Ti daremo in sacrificio qualcosa di diverso.
Ti daremo gli operai cassaintegrati, che non gioiscono per il privilegio di arricchire le tasche dei loro poveri padroni, che tanti sacrifici e tante rinunce fanno per loro, e anziché ringraziare protestano per pseudo diritti sinistroidi  di ispirazione bolscevica. Ma quale pensione e quale contributi, quali assenze per infortunio e per malattia, quale diritto allo sciopero. Avete l’onore di contribuire all’acquisto del Suv del vostro amato capo, che vi ricambierà facendovi dignitosamente galleggiare, senza infamia né lode, affinché possiate apprezzare il piacere delle piccole cose. Il denaro inquina l’animo umano, lo rende avido. È per questo che il vostro padrone se ne fa carico, in modo che voi possiate salvare la vostra anima da questo terribile veleno.
Ti daremo gli insegnanti, troppi e troppo petulanti. Non apprezzano l’opportunità di stare tra i giovani, con i giovani  e pretendono cattedre e stipendi, quando un povero vecchietto di anni 74 è costretto a pagare per poter stare con le minorenni.  Apprezzate ed amate ciò che vi è dato gratis!
Ti daremo i ricercatori, giovani menti che pensano di essere superiori agli altri e pensano che la loro presunta  superiorità debba per forza tradursi in stipendi da nababbi. Se amate così tanto la conoscenza, studiate gratis. Dovremmo chiedervi di pagare per farlo, e invece non chiediamo niente in cambio, se non il vostro lavoro. Non finanziamo ricerche farlocche, perdite di tempo nel nome del sapere a tutti i costi, anche quando il buon dio ha tracciato un solco ben definito tra conoscenza e ignoranza, colonne d’Ercole che, se solcate, porteranno inevitabilmente alla rovina. Andate ad arricchire le donnette che frignano e popolano il paese della sterlina. Per noi esiste solo il duro lavoro, quello che spacca la schiena.
Oh Saving, ricordati di noi anche quando non ci saremo più. Aiutaci a diventare i morti più ricchi del cimitero, in quanto questo è il solo nostro scopo nella vita.


venerdì 22 ottobre 2010

Intellettualmente Subordinato

Chi come me è cresciuto in questa nazione vecchia, fatta dai vecchi per i vecchi, non può non aver subito quello che ho subito io. Sono un giovane italiano, vittima dell’arroganza e della mediocrità della generazione che l’ha preceduto. Vittima del conservatorismo interessato, dell’ignoranza celata e di quella esibita, schiavo di un perbenismo subdolo e di un’enfasi sulle apparenze. Non ho più voglia di vivere in questo modo, voglio fregarmene di quello che la gente pensa, voglio fregarmene dei giudizi degli altri. Voglio dire quello che penso; voglio stare nel mondo per star bene, non per dare il minor fastidio possibile. Eppure è così che dovremmo vivere, se volessimo dare ascolto all’elite di potere che governa questo paese. Un manipolo di mafiosi, ladri, lacchè, preti e truffaldini. Ecco chi è a capo di questa nazione. Un’oligarchia teistica gerontacratica è la nostra reale forma di governo instauratasi dopo la seconda guerra mondiale. Ladri che parlano di onestà, pedofili che parlano di famiglia, falsi millantatori che parlano di verità, vecchi barzellettieri che parlano di giustizia e ragazzine che si gonfiano come canotti e puttaneggiano col primo politico che incontrano. È un paese culturalmente alla deriva, economicamente allo sbando e sull’orlo di una crisi sociale che esploderà, in men che non si dica, e travolgerà tutto ciò che incontrerà. Non basterà più avere paura e guardarsi le spalle da assassini, manaci, tossici, negri, arabi, rumeni, slavi, froci e via dicendo. Bisognerà avere paura del padre di famiglia, che prima o poi ti punterà il coltello alla gola anche solo per avere 10€ da dare da mangiare alla sua famiglia.

venerdì 15 ottobre 2010

Volta la Carta

Non so quand’è che si può dire di essere diventato grande. In effetti non c’è un momento preciso, un traguardo che separa nettamente l’infanzia dall’età adulta. È qualcosa che cambia lentamente e di cui abbiamo consapevolezza solo quando il passaggio è completo e irreversibile. Crescere è, da quando ero piccolo, il pensiero fisso. Pensare a ciò che sarei potuto diventare da grande, occupava la quasi totalità del miei sogni ad occhi aperti.
Poi, un bel giorno, chiudi di nuovo gli occhi e inizi a fantasticare sul passato, e da quel momento in poi capisci che qualcosa sta cambiando. Forse è quello il momento in cui la transizione è in atto. Ormai è troppo tardi, la struttura della nostra mente ci costringe a pensare al passato, a ripensare a ciò che si è già vissuto, a rivivere momenti che, in un modo o nell’altro, hanno segnato la nostra vita. Da tutto questo non scapperai mai, neanche se vai al polo nord. Il passato ti perseguiterà sempre, anche se farai di tutto per non pensarci. Coraggio ragazzi, il meglio è già passato, non ci resta che vivere di ricordi. Il presente è troppo confuso, troppo caotico per essere goduto a pieno. Te lo godrai quando, periodicamente, ti fermerai a pensare, a ricordare di quel presente che ora non è più tale, magari con lo sguardo perso nel vuoto davanti ad un caffè.  Il passato vive in gesti, in profumi, in parole e in canzoni. Vive nelle parole di chi, con te, ha condiviso quei momenti.
Il passato e il ricordo del passato, vivono di paradossi. Riflettendo sul passato e pensando ai ricordi, mi accorgo di avere nostalgia di alcuni momenti in cui pensavo a ricordi ancora più vecchi. Ho nostalgia di momenti in cui avevo nostalgia di momenti ancora più vecchi. Un ricordo nel ricordo, nostalgia nella nostalgia, roba da psicoanalisi o da trattamento sanitario obbligatorio. Che casino!
Dal passato ho però imparato una cosa. I miei ricordi più belli sono sempre legati a momenti di libertà assoluta. I conformismi non fanno per me e, purtroppo, dei conformismi non riesco a farne a meno. Vorrei liberarmene, ma ancora non ci sono riuscito.